- Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente.
- Le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
- Non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe.
- La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno.
- La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
- Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
- Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso.
- Gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo.
- Una maledetta voce mi diceva dentro, che era là anche lui, l’estraneo, di fronte a me, nello specchio.
- Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente.
- Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere.
- Il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite.
- Non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere.
- Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
- Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito.
- Vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me.
- Tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso.
- V’assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura più sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida.
- Non riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti ch’ella attribuiva al suo Gengè.
- Ella parlava col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto.
- Era certa certissima che al suo Gengè piaceva meglio pettinata in quell’altro modo, che non piaceva né a lei né a me.
- In ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre c’erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.
- Notare, dico, che per gli altri non dànno e non possono dare a questo padre quella stessa realtà che noi gli diamo.
- Tempo, spazio: necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è.
- Sono una prigione e la più ingiusta che si possa immaginare.
- Il Moscarda dell’uno non è il Moscarda dell’altro; credendo di parlare d’un Moscarda solo, che è proprio uno.
- Non m’era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolarità delle esperienze.
- Usurajo! usurajo! Perché io sono lì, presente, apposta, allo sfratto, protetto da un delegato e da due guardie.
- Avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri, non essere quello che mi si credeva.
- Come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perché ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell’uno che ero per lui.
- La gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare.
- Nei miei occhi non c’era veramente una vista per me, da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri.
- S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.
- Usurajo ero sempre stato, sempre, da prima ancora che nascessi?
- Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta!
- Finalmente! Non più usurajo (basta con quella banca!): e non più Gengè (basta con quella marionetta!).
- Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
- E per me, così fuori degli altri, l’assumerne uno diventa subito l’orrore di questo vuoto e di questa solitudine?
- Mi pare d’aver dimostrato a sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che gliel’aveva data.
- Possono indurvi a riconoscere che più vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro.
- Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire.
- Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive (…) Vuole troppo conoscersi, e non vive.
- Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso.
- Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo.
- Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
Luigi Pirandello
Uno, nessuno e centomila
1926
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